Commissione di apertura del mutuo e clausole abusive: il nuovo intervento della CGUE
La Corte di Giustizia UE, con sentenza del 30 aprile 2025 resa nella causa C-699/23, torna sul tema delle clausole abusive nei contratti di mutuo.
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione, da un lato, degli artt. 3 e 5 della Direttiva 93/13 del 5 aprile 1993 concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori e, dall’altro, dell’art. 7 della Direttiva 2014/17 del 4 febbraio 2014 in merito ai contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali.
La vicenda trae origine da un contratto di credito con garanzia ipotecaria, stipulato da Tizio con una delle principali cooperative di credito spagnole, in base al quale il mutuatario doveva versare, al momento della sottoscrizione, una commissione di apertura pari allo 0,35% dell’importo totale del mutuo.
Tizio, ritenendo abusiva la clausola che impone tale onere, conviene in giudizio l’istituto bancario.
La Corte di Giustizia si è già espressa in passato1 sul tema della trasparenza e del carattere potenzialmente abusivo della clausola relativa alla commissione di apertura. Tuttavia, le successive pronunce dei giudici nazionali sono risultate contradittorie. In particolare, il giudice del rinvio solleva dubbi circa la conformità dell’interpretazione fornita dalla Corte rispetto all’orientamento espresso dal Tribunal Supremo nella sentenza n. 816 del 29 maggio 2023. In tale pronuncia, il giudice spagnolo ha affermato che la clausola relativa alla commissione di apertura non è, in sé, abusiva, purché non comporti una duplicazione di costi già coperti da altri elementi contrattuali e l’importo risulti proporzionato rispetto alla media delle commissioni di apertura applicate in Spagna, sulla base di dati statisticamente accessibili.
Date tali premesse, il giudice del rinvio decide di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia le seguenti questioni pregiudiziali: i) se l’art. 5 della Direttiva 93/13 debba essere interpretato nel senso che osta a un orientamento giurisprudenziale nazionale secondo cui la clausola relativa alla commissione di apertura di un mutuo ipotecario soddisfa il requisito di trasparenza anche in assenza di una descrizione dettagliata dei servizi forniti in cambio di tale somma, dei tempi necessari per la loro esecuzione nonché della comunicazione preventiva — in fase precontrattuale — dell’esistenza della commissione stessa, della sua base di calcolo e della ripartizione dei costi mediante idonea documentazione giustificativa; ii) se gli artt. 3, 4 a 5 della Direttiva 93/13 ostino a una prassi secondo cui l’importo della commissione di apertura venga indicato unicamente come percentuale dell’ammontare complessivo del mutuo, senza ulteriori precisazioni circa la giustificazione e la proporzionalità del costo rispetto ai servizi effettivamente resi; iii) se gli artt. 3 e 4, par. 1, della Direttiva 93/13 ostino a un orientamento giurisprudenziale nazionale che si limiti a verificare che la clausola indichi l’importo dovuto e che tale importo non superi un massimale medio desunto da dati statistici nazionali, pur in assenza di «precisazioni relative ai servizi remunerati e al presso di ciascuno di tali servizi».
La Corte evidenzia che il requisito di trasparenza di cui all’articolo 5 «deve essere inteso in maniera estensiva»: il contratto «deve esporre in maniera trasparente il funzionamento concreto del meccanismo al quale si riferisce la clausola di cui trattasi […] di modo che il consumatore sia posto in grado di valutare, sulla base di criteri precisi e intellegibili, le conseguenze economiche che gliene derivano». A tal fine, però, l’istituto bancario non è tenuto a specificare «in modo dettagliato l’integralità dei servizi forniti in cambio di tale commissione al momento della comunicazione del tasso di interesse proposto», a indicare «una tariffa oraria» e a fornire «al consumatore fatture dettagliate, dalle quali risulti la ripartizione di detti servizi e le relative tasse». Ciò poiché tali elementi non incidono «sull’importo totale della remunerazione da pagare in correlazione alla commissione e sulla facoltà del consumatore di comprendere i motivi che giustificano tale remunerazione».
Con riguardo alla seconda questione, la Corte risponde dichiarando che non rileva il fatto che l’importo della clausola di commissione è stata espressa sotto forma di percentuale applicata all’importo del mutuo concesso, purché «il consumatore sia stato effettivamente posto in grado di valutare le conseguenze economiche che derivano da tale clausola, di comprendere la natura dei servizi previsti […] e di verificare che non vi sia sovrapposizione tra le varie spese previste dal contratto».
Infine, sull’interpretazione degli artt. 3 e 4, par. 1, della Direttiva 93/13.
Ai sensi del primo, una clausola contrattuale non negoziata individualmente si considera abusiva se, malgrado il requisito della buona fede, determina, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto.
La Corte afferma che la verifica della sussistenza di un eventuale squilibrio «non può limitarsi ad una valutazione economica di natura quantitativa che si basi su un confronto tra il valore complessivo dell’operazione oggetto del contratto, da un lato, e i costi posti a carico del consumatore da tale clausola, dall’altro. Conformemente all’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 93/13, il carattere abusivo di una clausola contrattuale è valutato tenendo conto della natura dei beni o dei servizi oggetto del contratto e facendo riferimento, al momento della conclusione del contratto, a tutte le circostanze che accompagnano detta conclusione nonché a tutte le altre clausole del contratto o di un altro contratto da cui esso dipende. Il giudice nazionale può senz’altro tener conto di statistiche nazionali che determinano il costo medio delle commissioni di apertura in un periodo recente, ma «solo questo elemento non è sufficiente». Il controllo deve essere effettivo, conforme «ai criteri risultanti dalla giurisprudenza della Corte» e deve essere volto a verificare la corrispondenza tra i costi posti a carico del consumatore e i servizi realmente forniti dalla banca.